Mi ricordo

 

 

Momenti indimenticabili, legati al nostro passato.

Ricordi di chi non c'è più, ricordi dell'infanzia, ricordi di...

Inviateli a Silvia.

 

L’acqua e lo zucchero (di Emma Bertone).

 Animatore Geriatrico - Pedagogista  A.N.P.E. 

(Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani)

dott. Gabriele Olivieri

Larga la foglia, stretta la via, voi dite la vostra che io dico la mia:

Il racconto che segue è uno dei miei molti ricordi, che ancora oggi più che mai è vivido in me ed è estremamente piacevole rimembrare, anche perché mi riporta indietro ai miei anni della gioventù: anni in cui ho vissuto in una civiltà contadina ormai persa nel tempo, nella quale vi erano presenti valori molto semplici, ma nello stesso tempo anche molto profondi, che hanno lasciato un segno indelebile nel mio cuore e nella mia anima.

Questa è la storia di Nonna Emma, così mi chiamava una bimba di circa due anni che anni or sono veniva a passare dei periodi di vacanza nel paese in cui vivevo.

La bimba, il cui nome è Roberta, amava spesso venirmi a trovare ed io le preparavo acqua e zucchero, una bevanda dolce e semplice come la vita attorno a noi.

Il paese in cui sono nata e vi ho abitato per 30 anni prima di sposarmi e di trasferirmi a Bastia d’Albenga in Liguria, è Caprauna: Caprauna, Capradue, a mae crava a gh’axeiva due cue, ma de due a ne restâ una e a se ciamâ Cravauna (proverbio del luogo), traduzione in italiano: Caprauna, Capradue, la mia capra aveva due code, ma di due ne è rimasta una e si è chiamata Caprauna.

Era allora un paese prevalentemente agricolo del Piemonte in provincia di Cuneo, al confine tra Piemonte e Liguria: ragion per cui il dialetto parlato era una via di mezzo tra le due Regioni.

I miei ricordi vanno a quella casa nella quale abitavo: una cascina a tre piani, al piano terreno vi era una stalla, al primo piano l’abitazione in cui vivevo con i miei genitori, mentre al secondo piano era ubicato il fienile.

A quello che sto dicendo forse i bambini di oggi non ci crederanno, ma questa è la pura verità: quando io andavo a scuola, in seconda e in terza elementare, i compiti e la lezione che dovevo imparare a memoria li dovevo e li potevo preparare solo nel pomeriggio, perché alla sera non vi era luce a sufficienza.

In quei tempi tutti avevamo un lume di vetro in cui mettevamo dentro del petrolio, al centro vi era un contenitore con dentro dell’apposito cotone che in dialetto si chiamava “bunbasciu”: quest’ultimo aveva sopra un tubo di vetro per l’aria, ma la luce era poca.

Poi con il tempo era uscita la “citilena”: noi ne avevamo comprato una di colore rosso con un beccuccio lungo (stoppino), in questa nuova lampada si metteva dentro il carburo e questa cominciava a fare molta più luce.

Per andare nella stalla avevamo una sorta di lampada di vetro con un coperchio di latta, una maniglia e un anello rotondo per appenderla al muro: dentro vi era uno spazio apposito in cui vi mettevamo dentro del cotone più piccolo e dell’olio di oliva (il petrolio non si usava più perché emanava uno sgradevole odore).

Sulla porta di casa all’entrata avevamo un tappeto di gomma tutto intrecciato.

In quei tempi nessuna aveva l’acqua in casa e tanto meno la lavatrice: vicino a casa mia c’erano quattro vasche di cemento molto grandi, due erano per fare il bucato, in una vi si lavava tutto con il sapone, nell’altra vi si risciacquava.

Le altre due servivano per abbeverare gli animali quando si arrivava dal pascolo: le mucche essendo alte vi arrivavano senza problemi, ma le capre e le pecore che erano più piccole si dovevano alzare con le zampe anteriori sulla vasca per poter bere.

E sulle vasche riservate agli animali c’era scritto sopra in rosso bene evidenziato: “E’ severamente proibito lavare oggetti di qualsiasi specie”.           

Nella stalla avevamo un mulo e tre mucche, queste ultime davano alla luce i vitelli che poi la mia famiglia vendeva per avere le risorse per vivere, mentre del latte in esubero ne facevamo burro e formaggio.

Nella stessa stalla avevano anche capre e pecore, mentre galline e conigli venivano allevati in apposite gabbie.

Fuori nell’aia scodinzolava una dolce e affettuosa cagnetta marrone con delle chiazze bianche di nome Lea.

Ricordo però anche la fatica che dovevamo sempre fare per il fieno in estate, noi donne usavamo la falce, mentre gli uomini impugnavano invece un falcetto con una impugnatura a due mani in legno, l’erba tagliata bisognava poi lasciarla seccare per farne successivamente delle balle trasportabili per le provviste dell’inverno: era necessario per nutrire le mucche, mentre per le capre e per le pecore tagliavamo i polloni delle piante di frassino o di rovere, e facevamo di questi ultimi delle fascine da conservare anch’esse per l’inverno.

Sempre a proposito del fieno rammento che allora vi erano molte vipere e, mentre una famiglia del paese stava sistemando alcune di queste balle nella stalla, ne uscì proprio una, che per fortuna procurò loro solo dello spavento.

Per quanto riguarda la mia famiglia, dovevamo sempre portare il fieno in spalla, dapprima tutto al secondo piano attraverso una scala, mentre durante l’inverno dovevamo ributtarlo giù per portarlo nella stalla al piano terreno per sfamare gli animali.

Per arrivare dalle zone del taglio del fieno sino alla stalla, ci servivamo del mulo con un basto fornito di ganci per attaccarvi il fieno precedentemente avvolto e legato per essere trasportato, a questo animale vi ero affezionata, ma purtroppo alla morte di mio padre che avvenne quando io avevo cinque anni circa mia madre ed io fummo obbligate a venderlo.

I rapporti fra le persone erano in quei tempi molto diversi da quelli attuali, vi era molta collaborazione, ci si aiutava a vicenda e quando qualche compaesano era impossibilitato per problemi di salute ricordo che si andava tutti al suo podere a tagliargli il fieno, a badare agli animali oppure si contribuiva in altri modi.

Le mucche le portavamo al pascolo in alta montagna per tutto il periodo primaverile ed estivo: qui vi si trovavano delle baite e alcune stalle, a far pascolare gli animali si stava dalle quattro del mattino fino alle nove circa e poi nel pomeriggio.

Dal momento che nelle ore più calde della giornata sopraggiungevano le mosche che le rendevano molto nervose, allora si ritornava ai ricoveri per mungerle, per allattare i loro piccoli e per altri lavori: solo alla fine si poteva pensare a preparare il pranzo per noi.

Dopo le 15.00 si riportavano le mucche al pascolo sino alle 18.00 e poi di nuovo alle stalle per mungerle una seconda volta e per allattare ancora i vitelli, che peraltro ricordo ancora bene come mi lasciassero i segni dei loro denti sulle mie dita.

Avevo sempre infatti tutte le mani scorticate dovute ai tentativi per aprir loro la bocca, questa manovra serviva per fargli sentire il gusto del latte che dovevano poi bere: mettendo loro il dito gocciolante di latte in bocca, venivano poi stimolati a nutrirsi da un contenitore, quando la madre per chissà quale motivo si infastidiva alle loro richieste.      

Dopo una giornata di duro lavoro, finalmente solo a notte fonda si poteva fare cena.

Le baite erano attrezzate per poterci scaldare e per potere prepararci i pasti, vi si portava della legna, anche perché per tutto il periodo del pascolo, pur non essendo mesi invernali, in alta montagna faceva comunque freddo la sera e soprattutto la notte.

Nel periodo in cui stavo su in montagna accudivo anche del bestiame di altri compaesani, perché potevo guadagnare qualche soldino in più, dal momento che avevo tanta voglia di aiutare la mamma e il desiderio di comperarmi un vestito nuovo e un paio di scarpe. 

Durante il pascolo accadeva spesso di ricevere delle visite da persone che mentre erano in viaggio di piacere verso il Monte Armetta per raccogliere delle stelle alpine ci chiedevano se fosse possibile acquistare del formaggio di nostra produzione.

A questi signori che venivano a fare una passeggiata a piedi, gli facevamo poi vedere la baita ed erano molto contenti perché si riportavano indietro formaggio e burro delle nostre mucche, inoltre al ritorno, strada facendo sul ciglio della strada raccoglievano della lavanda, dell’origano o della camomilla.    

Ognuno poi a turno, sempre durante il periodo del pascolo da aprile a settembre si occupava di tutte le pecore e le capre del paese: di buon mattino(verso le ore 04.00), con un suono di cornamusa si chiamavano a raccolta tutti i proprietari del bestiame, che veniva radunato nella piazza centrale del paese.

A questo punto il proprietario di turno le portava al pascolo e solo a notte fonda le riportava al punto da cui era partito.

Il criteri della ripartizione dei giorni di lavoro spettanti ad ognuno si definivano secondo il numero di animali posseduti, ad esempio chi possedeva due pecore o due capre doveva rendersi disponibile per due giorni per il pascolo, a chi ne aveva tre erano invece richiesti tre giorni  e così via.

Oggi a distanza di anni mi trovo all’Istituto Domenico Trincheri e mentre sono a stretto contatto con tutti coloro che vi lavorano, non so più nulla di quella bambina che mi chiamava Nonna Emma, alla quale davo sempre acqua e zucchero.

Un bel giorno mentre mi trovavo a tavola in attesa del pranzo una giovane dipendente si rivolge verso di me dicendomi: Signora Emma ma lei è quella che a Caprauna chiamavo Nonna Emma e che mi dava acqua e zucchero, me lo ha detto mia madre   mi ha raccomandato tanto di salutarla.

Roberta nel frattempo è cresciuta ed è una bella ragazza che già da tempo ho conosciuto qui in istituto, ma non sapevo che fosse lei: quella deliziosa bambina a cui offrivo acqua e zucchero e che mi veniva a trovare nella vecchia casa del paese.

Dopo così tanti anni ci siamo ritrovate.

Ora che vivo in Albenga all’interno dell’istituto, rimangono i miei ricordi a rendermi ancora viva e a consolarmi e per fortuna dal momento che sono vedova e sola ci sono questi istituti per vivere in compagnia di tante altre persone.            

             

Le “basure”  (di Emma Bertone).

 Animatore Geriatrico - Pedagogista  A.N.P.E. 

(Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani)

dott. Gabriele Olivieri

 

Nel dialetto ligure e nel basso Piemonte alla figura delle “basure” corrispondevano quelle delle streghe.

Quando noi eravamo bambini e non c’era la televisione sopravviveva nel tempo la tradizione orale: erano storie che in giovane età ci facevano molta paura.

L’usanza raccontava di disavventure tra il sacro e il profano di donne che attraverso un patto con il diavolo, quindi con un pizzico di cattiveria facevano del male alle persone.

La mia povera mamma mi narrava sempre della sua infanzia, di una storia tramandata ed ambientata nei tempi che furono: di una donna che in un periodo non propriamente florido offrì alla mia famiglia materna una forma intera di formaggio.

Per la famiglia della mamma era un periodo per così dire di carestia, le mucche non avevano latte poiché dovevano allattare i vitellini, quindi la fame era tanta.

Fu offerta loro quindi questa bella forma di cacio che faceva venire l’acquolina in bocca.

Si usava a quei tempi accendere un fuoco al centro della cucina per preparare il pasto, per scaldarsi nonché per radunarsi tutti insieme.

Fu così che alla sera davanti al fuoco, mentre tutti si pregustavano già il “lauto” spuntino, mio nonno con fare deciso prese il cacio e lo buttò nel fuoco dicendo: “E’ il formaggio della “basura”, quindi non lo mangiamo”.

Il suddetto formaggio con il calore del fuoco si mise allora a sfrigolare, saltellare e a scoppiettare tra le fiamme.

Il giorno dopo in paese correva voce che la signora del formaggio era impossibilitata a letto con delle ustioni agli arti inferiori.          

 

Ricordi di scuola (di Ernesto).

 Animatore Geriatrico - Pedagogista  A.N.P.E. 

(Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani)

dott. Gabriele Olivieri

 Il racconto seguente è stato attinto dalle innumerevoli conversazioni con Ernesto, un simpatico signore ospitato per molto tempo già nella vecchia sede, Cinzia, la precedente Animatrice ha allora trascritto quanto diceva, rimanendo così negli annali dell’istituto.     

La scuola ?  Sì mi piaceva andarci.......beh adesso che ci penso mi è piaciuto tanto sino alla 3° elementare, mentre all’ultimo anno....e sì le elementari ai miei tempi finivano alla 5°.

Vi racconto: mi chiamo Ernesto e da piccolo ero un poco timido, diciamo la verità, ero proprio tanto timido e ancora adesso lo sono un po’.

A quel tempo i maestri facevano sentire tutta la loro autorità, erano dei maestri con la M maiuscola e noi piccoli così come per i genitori ne avevamo un gran rispetto.

Però non sempre era così: io andavo a scuola a San Fedele Lusignano con tanti compagni.

La mia maestra era dolce e comprensiva e quando la timidezza mi impediva di capire, lei non si arrabbiava mai, ma mi aiutava, talvolta mi sembrava quasi meglio della mia mamma.

Allora sì che nei giorni della fanciullezza mi piaceva andare a scuola, tutti pensavano che fossi testone, ma io lo so, lei, la mia maestra non ci credeva proprio tanto.

Poi finiva l’estate della III° elementare, si torna tutti a scuola e con grande sorpresa lei non c’è.

La sostituisce un’altra mia maestra, di quelle con la M maiuscola, la ho odiata da subito, dov’era la mia dolce maestra?

Ben presto si sa l’antipatia finisce con il diventare reciproca e quella strega non sa quanto ero affezionato alla mia precedente maestra e mi urla, grida che sono un teppista, che non capisco niente, è stato un anno durissimo, il più brutto della mia vita.

Infine mia madre interviene, chissà quanto le è costato, va quindi dalla maestra a dirle che potevo anche essere un testone, ma un teppista proprio no, così io senza mandarne a dire gliene ho dette quattro a quella strega che ci urlava e ci maltrattava.

Poi anche la IV°classe è terminata, ma porto sempre nel cuore quella dolce maestra.              

Altro che supermercato... (di Emilia).

 Animatore Geriatrico - Pedagogista  A.N.P.E. 

(Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani)

dott. Gabriele Olivieri

 

Il racconto che segue è stato scritto da Cinzia, la precedente Animatrice, e descrive una civiltà contadina ormai estinta, in cui del consumismo attuale non vi era neanche l’ombra, è un mondo che alla maggior parte di noi può sembrare lontanissimo; Emilia era una dolce e simpatica nonnina, che abbiamo ospitato a lungo già da quando ancora eravamo nel vecchio istituto, e raccontava spesso del suo passato.

     

Siamo nel 1920, la famiglia di Emilia è numerosa: 6 figli più mamma e papà; abita una cascina ad Aquila d’Arroscia in provincia di Imperia.

La proprietà di famiglia è costituita da appezzamenti di ulivi, castagneti, e poi c’è il bestiame, 4 buoi, 2 mucche, un mulo, 2 capre, 6 pecore ed infine galline e conigli.

Mamma Carolina ha molta forza e vitalità e quando il marito muore di tifo, si occupa di tutto con l’aiuto del buon nonno Giacomo e dei figli più grandi.

La cascina di Emilia è una realtà autonoma e autosufficiente.

I buoi aiutano ad arare, il mulo a trasportare i pesi, le pecore danno lana per calze e maglioni, le capre e le mucche producono il latte per il burro e il formaggio, gli animali da cortile producono carne e uova.

Dalle campagne arriva la verdura, l’olio d’oliva e il grano per il pane che rigorosamente ogni sabato mattina viene impastato per tutta la settimana.

Si semina anche l’orzo che verrà poi tostato in una particolare padella sopra la stufa, mentre le castagne sono un buon cibo goloso, ma Emilia ricorda ancora quel buon sapore che avevano le “trofie” impastate da mamma Carolina con la farina di grano e con quella di castagne.

Tanto lavoro da mattina a sera........

Di tanto in tanto si va in paese, si va al negozio e si compera .........solo lo zucchero.